Il libro di Virginia Stagni, Dreamers Who Do, edito da EGEA, è costruito sui continui intrecci tra vita, passioni, etica e professione.
Chiunque conosca Virginia Stagni anche solo un po’ tramite le interviste o il recente TedxPadova, saprà bene che lo storytelling in lei appare una qualità innata, lì dove invece qualsiasi predisposizione naturale è stata affinata con solerzia come tecnica del racconto di sé. La storia di fondo c’è e funziona.
La giovanissima ragazza bolognese che, spinta da una vocazione che l’ha accompagnata sin dalla tenera età – quella per la carta stampata – trova fortuna all’estero, dove il suo desiderio di impegno riesce a farsi sostanza, dove la visione diventa azione. E questa storia, Stagni non solo non teme di condividerla, piuttosto ne fa una specie di efficace strategia di personal branding e community engagement: linee guida della sua attività di sviluppo e diversificazione dell’audience presso il Financial Times.
Dreamers who do parla di innovazione e lo fa con una vena autoriale particolare. La prova d’esordio di Stagni denota un certo coraggio, perché serve audacia per proporsi come saggista senza sacrificare la generosità necessaria ad affidare la propria storia al pubblico, creando una situazione comunicativa fondata sulla fiducia dello svelamento. Stagni fa spesso ricorso all’emblematica figura del Giano bifronte, e a suo modo la sua prima prova d’autrice subisce la stessa tentazione di doppiezza.
Le due facce di un libro coraggioso
La prima parte del libro è infatti dedicata a fornire al lettore una premessa al posizionamento dell’autrice, impegnata in prima persona ad affrontare la generalizzata crisi del giornalismo.
Stagni presta attenzione a spiegare con cura ogni passaggio logico che l’ha indotta a ricreare uno schema esplicativo lucido ed esaustivo, fatto di alcuni pilastri irremovibili: giornalismo e democrazia si alimentano a vicenda ed è per questo che l’industria delle news non può soccombere alla disruption digitale.
Il giornalismo non deve sottomettersi a una rivoluzione che rischia di minarne le fondamenta etiche: può invece evolversi e adattarsi, ponendosi la domanda cruciale del come farsi innovativo in un panorama globale in cui il lettore si è fatto user e l’economia dell’attenzione è reticente a sottoporsi a misurazioni qualitative.
Stagni spazia con disinvoltura dalla storia romana al periodo napoleonico, passando per Goebbels e giungendo fino ai noti fatti della Brexit: una galleria di cui si serve consapevolmente per mettere in luce bias collettivi e disfunzioni dell’opinione pubblica, collocati in ultima analisi nel mondo interconnesso. In questo suo modo di viaggiare sospesa per assumere una visione olistica (la stessa “aerial perspective” che l’ha portata a interessarsi ai meccanismi organizzativi e soprattutto alle prassi non istituzionali di una big corporate come il FT), l’autrice preserva alcuni ganci con la realtà contemporanea, di cui mette in luce contraddizioni e strategie risolutive.
Intrapreneurship: tra il fare e il sognare
La seconda parte del libro è, infatti, dedicata al ritratto dell’intrapreneur, prototipo intraprendente e visionario che Stagni traccia con pennellate nitide e asciutte.
Non un entrepreneur in senso classico, ma una figura ibrida che sappia innovare al margine: non distruggere per ricostruire, ma trasformare con pazienza e una certa dose di diplomazia.
Anche qui Stagni recupera alla memoria alcuni illuminanti esempi che, con grande umiltà, la portano a riconoscere tanto gli insegnamenti di maestri indiscussi (a Olivetti, “the dreamer who inspired Steve Jobs” è dedicato un paragrafo) e di colleghi senior che ha incontrato nel suo più recente cammino: l’autrice ne riporta frasi e suggestioni, annotate con quella voracità propria di chi è dedito, curioso e, soprattutto, in perenne ascolto.
Sono figure un po’ scomode, inquiete ma sempre accorte nello scavarsi la nicchia giusta da cui poter guardare a un orizzonte imperscrutabile. Una via, sottolinea la Business Development Manager, che può spaventare perché accidentata, ma che i giornali non possono più rifiutarsi di intraprendere: l’alternativa è restare impantanati nel gioco sporco del sensazionalismo e del ricatto quantitativo delle pubblicità.
Dreamers who do: il libro nuovo sull’innovazione
Il racconto della parabola ideale dell’intrapreneur è a sua volta sorprendente, e la natura stessa del libro si rivela quella di un ibrido che mescola la forma divulgativa con quella della narrazione appassionata.
Stagni adotta un metodo di indagine analitico che è proprio dell’accademia – la bibliografia è corposa e variegata – ma ne smussa ogni elemento che può costituire ostacolo per la comprensione del lettore o della lettrice, attraverso una sintassi densa di metafore efficaci. Lo stile non usa i termini, spesso criptici, dell’accademismo: rimangono, invece, una tensione verso la ripetizione – peculiare invece dell’oralità – e l’interlocuzione diretta a creare il massimo dell’immedesimazione in chi legge
Il risultato è una miscela assolutamente unica di precisione e semplicità, che ha l’efficacia istruttiva del saggio e la potenza comunicativa delle storie di vita. Stagni imbeve la sua scrittura di fattore umano, prestando attenzione all’etimologia delle parole, alle connessioni tra gli eventi e, soprattutto, tra le persone.
Dreamers who do è un incoraggiamento all’innovazione che dosa sapientemente il senso del rischio. Quello che resta è un ossimoro estremamente prolifico: la consapevolezza di essere disallineati, e che questa incertezza può essere inaspettatamente creativa.
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