Alessandra Carminati, ideatrice e curatrice della rubrica Recensioni in Rosa ha deciso questa volta di recensire per noi un classico della letteratura, una storia moderna capace di emozionare e far riflettere.

Pubblicato per la prima volta nel 1938 con il titolo “Rebecca”, questo romanzo dal sapore gotico, frutto della penna della scrittrice britannica Daphne du Maurier, risulta ancora attualissimo per il percorso di crescita che racconta. Ne sono prova i numerosissimi adattamenti cinematografici, il più famoso e riuscito dei quali resta probabilmente quello di Hitchcock del 1940 (non per niente ottenne undici nomination agli Oscar e ne vinse ben due, tra cui quello per il miglior film). Tuttavia, anche in tempi a noi più vicini, il romanzo continua a suscitare interesse; nel 2020, infatti, è uscito un nuovo adattamento, prodotto dal colosso Netflix e interpretato da Lily James e Armie Hammer.

 

 

Una trama singolare…

Viene spontaneo chiedersi cosa renda il romanzo così attuale ancora oggi.

Leggendo il libro non si può non notare la singolarità della trama, riportata in prima persona da una narratrice di cui non conosceremo mai il nome (verrà sempre e soltanto chiamata “seconda signora de Winter”) la quale, attraverso un lunghissimo flashback, rievoca le vicende che l’hanno portata a vagabondare lontano dall’Inghilterra insieme al marito, in quello che sembrerebbe una sorta di esilio volontario.

Se i primi due capitoli infatti si aprono sul presente, è fin da subito chiaro che non è tanto il presente a contare per la donna ma il passato, un passato e un luogo, la maestosa dimora di Manderley, a cui non è più possibile tornare.

Sarà pertanto per forza di cose il lunghissimo flashback a spiegarne le ragioni.

L’inizio di una favola?

Il flashback ci porta inizialmente nell’assolata Montecarlo, dove la nostra protagonista si trova in veste di dama di compagnia della ricca Mrs. Van Hopper, americana dal carattere eccentrico e appassionata di gossip.

Fin dall’inizio la protagonista appare come una giovane donna ingenua, timida, impacciata ai limiti della goffaggine. Eppure, nonostante questo suo essere quasi infantile, riesce ad attirare l’attenzione del ricco vedovo Maxim de Winter che le chiede di sposarlo e di andare a vivere con lui nella sua bellissima dimora in Cornovaglia, Manderley appunto.

Le premesse sembrano essere quelle di una favola alla Cenerentola ma, fin dall’inizio, qualcosa “stona”.

Maxim de Winter non nasconde la sua personalità schiva, tormentata, per di più l’uomo sembra essere ancora in parte provato dalla morte di Rebecca, la sua bellissima e sofisticata prima moglie.

Insomma, la nostra protagonista priva di nome (notevole la differenza con Rebecca il cui nome ritorna spessissimo), viene posta fin da subito in una sorta di posizione “inferiore”, proviene da un mondo agli antipodi rispetto a quello di Maxim (e di Rebecca).

Nonostante tutto, piena di fiducia, innamorata (e ancora estremamente ingenua) la giovane accetta la proposta di matrimonio e si trasferisce così a Manderley.

Come detto, potrebbe essere l’inizio di una bella favola… ma non è così.

La contrapposizione di due opposti

A Manderley la seconda signora de Winter non riesce ad ambientarsi, nonostante i suoi goffi sforzi. I rapporti con il marito si fanno più tesi e tutto, nell’imponente dimora, non fa che ricordarle Rebecca: oggetti, arredi, abiti ancora intatti…, quasi si trattasse di un mausoleo eretto alla memoria della prima moglie di Maxim.

Persino la governante, la terrificante signora Danvers, nutre ancora per Rebecca un’adorazione ossessiva, e con il suo comportamento vuole ricordare a tutti che l’unica e indiscussa padrona di Manderley rimarrà per sempre Rebecca.

Più si prosegue nella lettura e più il romanzo si allontana da quel seppur vago sapore romantico iniziale, per virare su toni molto più gotici, foschi.

Emergono i primi misteri, le atmosfere si fanno angoscianti, si ha quasi l’impressione di oscillare tra realtà e irrealtà.

Il confronto tra la narratrice senza nome e Rebecca si fa sempre più netto, e laddove la nostra timida protagonista continua a sentirsi insicura, inadeguata e gelosa di un fantasma al punto tale da faticare a esprimere la sua personalità, Rebecca ci viene invece puntualmente descritta come una donna energica, indipendente, una forza della natura, amata da tutti, capace di ammaliare e di stupire con la sua grazia.

È evidente che le due donne non potrebbero essere più agli antipodi di così, ed è ironico che, tra le due, sia quella che ormai non c’è più, e non può parlare in prima persona, a dominare la scena.

 

 

Non è tutto oro quello che luccica

Eppure, come spesso accade, “non è tutto oro quello che luccica”.

Il ritrovamento del cadavere di Rebecca porterà a una serie di scoperte sconcertanti e alla rivelazione di un terribile segreto.

La nostra protagonista scoprirà la verità sulla personalità di Rebecca e sulla causa della sua morte e, paradossalmente, sarà proprio questa conoscenza a renderla sicura di sé, a farla crescere e a farle perdere definitivamente l’innocenza.

Rebecca era ben lungi dall’essere perfetta, il volto che mostrava al mondo non era reale, e Maxim la detestava.

La seconda signora de Winter può finalmente smetterla di paragonarsi al fantasma di Rebecca, e se il finale riserva ancora qualche amara sorpresa, sappiamo fin dall’inizio, da quei capitoli ambientati nel presente, che la protagonista e Maxim hanno ripreso in mano le loro vite, anche se Manderley è andata persa per sempre.

La prosa della du Maurier e il percorso della protagonista

Leggendo il romanzo è facile, inizialmente, fare paragoni con “Jane Eyre” di Charlotte Brontë, anche se le similitudini sono ben poche rispetto alle differenze (a partire dal particolare non trascurabile che la Brontë alla sua protagonista un nome lo assegna).

Tornano in mente anche favole come Barbablù e Cenerentola e certi romanzi tipici del filone letterario del murder mistery.

Tuttavia, lo stile della du Maurier è inconfondibile, la sua prosa è estremamente evocativa, le descrizioni vivide e dettagliate, le parole scelte con cura estrema, mai lasciate al caso.

Anche il minimo dettaglio sembra essere attentamente pensato, ricercato persino.

Alcune critiche hanno voluto vedere nella contrapposizione tra la protagonista e Rebecca un richiamo alla condizione femminile caratteristica del periodo storico a cui la du Maurier apparteneva. Da una parte infatti abbiamo la figura della narratrice, che richiama l’immagine della donna sottomessa agli stereotipi sociali dell’epoca, dall’altra Rebecca, che da quegli stereotipi si allontana, trasgredendo le regole.

Personalmente, credo che questa possa essere solo una possibile interpretazione. Ritengo sì che le due donne descritte nel romanzo siano antitetiche, due facce di una medaglia a pensarci bene ma, nonostante l’ingombrante presenza (pur nella sua assenza) di Rebecca e il contrasto con la nostra narratrice anonima, quello che più mi ha colpita è stato il percorso di crescita della protagonista.

Certo, è ingenua, a volte persino pedante, ma nel momento in cui smette di paragonarsi a Rebecca riesce a vedere le cose per quello che sono realmente.

È vero che per far questo deve prima venire a conoscenza della verità, ha bisogno di un aiuto “esterno”, ma alla fine ci riesce, e per questo matura.

Comprende che non deve essere una brutta copia di Rebecca, deve semplicemente trovare la sua strada, abbandonando tutte le sue idealizzazioni infantili.

Nessuno è perfetto, nemmeno Rebecca, anzi…

Da questa consapevolezza, e dall’aver metabolizzato la verità, la protagonista potrà trarre una lezione, esprimere finalmente la sua personalità ed essere per il marito un sostegno (i ruoli sembrano quasi ribaltarsi, alla fine è lei la più forte dei due).

La protagonista senza nome ha infine la sua piccola, grande rivincita.

L’adattamento di Hitchcock

Come accennato all’inizio, il romanzo ha avuto diversi adattamenti cinematografici, teatrali e televisivi ma, a mio parere, il migliore resta quello che vede Alfred Hitchcock alla regia.

Il film in questione meriterebbe una recensione a parte, sia per la sua genesi e il difficile rapporto che si era creato tra Hitchcock e il produttore David O. Selznick (per intenderci, lo stesso reduce dal successo globale di “Via col vento”), che per le mille peculiarità che differenziano la pellicola dal romanzo (per certi versi riescono persino ad amplificarne il messaggio).

Nel film la protagonista, pur rimanendo senza nome, acquista intensità, perde ogni aspetto “pedante” e il suo mutamento finale è reso ancora più evidente.

Se nelle prime scene vediamo Joan Fontaine, l’attrice che la interpreta, camminare persino con le spalle incurvate, timida, goffa, resa minuscola rispetto agli ambienti austeri di Manderley (in una scena sembra che il camino dietro di lei sia enorme), nelle ultime cammina eretta, sicura, ha preso in mano la situazione, diventando un’ancora di salvezza per il marito.

Il film aumenta anche il senso di mistero incombente, l’idea che ci sia qualcosa di sinistro a Manderley (Judith Anderson nel ruolo della governante, la signora Danvers, è bravissima e inquietante).

Credo che il film di Hitchcock, insomma, renda ancora meglio la crescita e il cambiamento della protagonista. Si perde la narrazione in prima persona (a parte nella scena iniziale del sogno) ma si resta ancora più coinvolti dalla storia, si parteggia ancora di più per questa donna che si fa forza e diventa più matura e consapevole.

 

Alessandra Carminati


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