Vi diamo il benvenuto nella rubrica “Warriors”, lo spazio del blog ideato e curato da Graziana Gesualdo, dedicato alle donne guerriere, a chi affronta le proprie battaglie con coraggio e determinazione.

Oggi sono felice di intervistare Gaia Dominici, giovane donna di 30 anni nata in Colombia e cresciuta in Italia da sempre con il cuore avventuriero e lo spirito libero. Nel 2014 gli studi la portano in Kenya e ben presto questa meravigliosa terra diventa la sua casa, vedendola diventare donna e madre. Sul profilo Instagram @siankiki racconta in modo genuino e senza filtri la sua vita nella savana.

 

Gaia Dominici 2

 

Ciao Gaia, che bello averti qui! Grazie per aver accettato l’invito. Raccontaci un po’ di te. 

«Ciao Graziana, è un piacere conoscerti! Grazie per l’invito! 

Mi chiamo Gaia e vivo nella savana, al confine tra Kenya e Tanzania, ai piedi del Kilimangiaro in una comunità maasai.

Vivo con mio marito Ntoyiai e mia figlia Nare a strettissimo contatto con la natura. I nostri vicini di casa infatti sono giraffe, zebre, elefanti, iene, gazzelle e leoni. 

Ntoyiai è un guerriero maasai, ci siamo conosciuti nel 2014. All’epoca studiavo in Inghilterra per diventare fotografa di guerra e i primi anni ho fatto la spola tra Inghilterra e Kenya, nel 2018 ci siamo sposati e un anno dopo è nata Nare, il nostro piccolo uragano.

Oggi sui social racconto la nostra vita nella savana sottolineando la possibilità di fare scelte non canoniche e la bellezza della diversità.

Mi piace portare le persone all’interno della cultura maasai cercando di abbattere barriere, diffidenze e pregiudizi che spesso le persone hanno nei confronti di tutto ciò che è diverso e lontano dalla loro cultura di appartenenza.»

 

Quali sono le sfide più importanti che hai affrontato nel corso della tua vita e quali grandi lezioni hai imparato da queste esperienze? 

«Tosta come domanda! Di battaglie ne ho affrontate tante, a partire dal mio abbandono.

Sono nata in Colombia, a Bogotà, e sono stata adottata a pochi mesi dalla mia famiglia, che per me è tutto. L’adozione in sé non è stata dolorosa, ma la consapevolezza di essere stata abbandonata da chi avrebbe dovuto amarmi e proteggermi tutt’oggi fa male. 

Un’altra grande battaglia riguarda il colore della mia pelle. Essendo di origini sudamericane, ho dei tratti visibilmente diversi: gli occhi e i capelli molto scuri e la pelle decisamente non bianca. Per via di queste mie caratteristiche sono stata per anni vittima di razzismo. Non essere di origini italiane, non essere bianca in un Paese tendenzialmente razzista come l’Italia ha condizionato notevolmente i primi anni della mia infanzia e adolescenza. 

Poi è arrivata la malattia: artrite reumatoide giovanile poliarticolare in forma aggressiva, una patologia cronico-degenerativa che mi è stata diagnosticata a 18 anni con due anni di ritardo e che in quei due anni ha fatto dei danni irreversibili: ho subito due grossi interventi nella mia vita, uno di sostituzione totale delle ossa del polso con una protesi di titanio e l’altro (a maggio di quest’anno) di due protesi nella mano destra da cui ancora oggi sto cercando di riprendermi. Questa è stata un’enorme ferita: a 18 anni, nel pieno della mia giovinezza, non riuscivo a lavarmi i denti o a mangiare da sola e a quell’età vedere il tuo corpo che si deforma, ti paralizza e ti costringe a stare a letto è frustrante

Da queste esperienze ho imparato che non sempre il dolore insegna, nel senso che, avendo avuto un’esistenza costellata di tanti dolori, a volte ne avrei fatto a meno.

Il dolore ti permette di conoscere e riconoscere alcune capacità che non credevi di avere, ma ci sono stati dei momenti in cui mi sono chiesta: “Perché? perché a me? perché devi farmi questo, Vita? non ti ho già dimostrato di essere forte?”

Un altro grande insegnamento è stato seguire il cuore: molto spesso, soprattutto dopo aver conosciuto Ntoyiai, mi son detta: “Dove pensi che ti porterà tutto questo? È un amore impossibile!” Sembrava una follia sposare un uomo così diverso da me.

Oggi posso dire che nella savana ho ritrovato me stessa, accanto a Nytoyiai ho trovato la mia pace e, se non avessi seguito il mio cuore, non avrei mai conosciuto questa grande felicità

 

Nel tuo libro “La nostra vita nella savana” e sul tuo profilo Instagram @siankiki racconti episodi di quotidianità della tua famiglia e della comunità di cui fai parte. Cosa significa siankiki e da dove nasce questo nome?

«Siankiki è una parola in lingua maa che significa “giovane donna”. Non è un nome proprio, è un appellativo che viene utilizzato per indicare le giovani donne. Se qualcuno non sa come mi chiamo, ad esempio, può rivolgersi a me utilizzando la parola “siankiki”.

Il mio nome maasai, invece, è Naramatisho che significa “persona che si occupa e si preoccupa degli altri e su cui gli altri possono contare”.»

 

Quali somiglianze e differenze noti tra la piccola Gaia e tua figlia Nare?

«Due mondi completamente differenti. Nare per fortuna è l’opposto di quel che ero io alla sua età: è spavalda, sicura di sé, attiva, simpatica, buffona, estremamente solare. 

Io ero una bambina piena di ombre, molto diffidente, mi chiedevo spesso da dove venissi e mia madre mi ha raccontato che un giorno, di ritorno dall’asilo, le chiesi: “Mamma, ma io soffrirò per sempre?” 

Osservavo tutti con diffidenza, senza mai accennare un sorriso, avevo l’abitudine di fissare le persone mettendole in soggezione e a disagio. Crescendo sono diventata più “estroversa”, ma era un dover far credere di non essere così diffidente perché non sapevo gestire le mie ombre.»

 

Sei l’esempio di chi ha scelto di vivere in simbiosi con la natura e i tuoi racconti sembrano tratti dal cartone animato “Il Re Leone”. Cosa vuol dire vivere nella savana e calpestare la stessa terra di animali maestosi come elefanti e giraffe?

elefanti

«È un bagno di umiltà costante perché ti ricorda che sei solamente un puntino all’interno di un ordine ben preciso delle cose.

Io sono cresciuta a Genova, tra palazzi, strade asfaltate, in un Paese in cui l’edilizia e la globalizzazione sono al massimo esponenziale. Questa è la mentalità con cui sono cresciuta: si tirano giù strade, si alzano muri, si cambiano i corsi d’acqua se ci impediscono il passaggio. 

Vivere nella savana in mezzo al nulla ha cambiato radicalmente il mio modo di percepire ogni cosa perché è un contesto che ti riporta al tuo posto, è un tornare ad una sorta di vita ancestrale che segue i ritmi del sole: ci si sveglia all’alba e si va a dormire poco dopo il tramonto. È un ricordarsi che la natura è sovrana: se rientrando a casa t’imbatti in un branco di elefanti, devi aspettare che questo si allontani per riprendere il cammino, se le piogge molto forti provocano alluvioni possono causare la morte di tante persone, se una macchina involontariamente butta giù un palo della luce, c’è il rischio di restare 3 settimane senza elettricità.»

 

Hai viaggiato in lungo e in largo lasciando un pezzo di cuore in ogni Paese che hai visitato per poi sposarti a Nairobi con Ntoyiai. Cos’è per te la diversità?

«La diversità è il motore che dovrebbe spingere ad amare prima di tutto noi stessi. Significa abbracciare i nostri tratti somatici, le nostre imperfezioni, i nostri punti di forza e le nostre fragilità perché ognuno di noi è diverso ed è questa la vera ricchezza

L’uguaglianza non è assenza di diversità, ma è riconoscimento di ogni singola diversità e, solo nel momento in cui riconosci che il mondo e le persone sono di colori diversi, ci sarà davvero l’uguaglianza. Il nero non è bianco, il bianco non è nero e all’interno di ogni singolo colore ci sono mille sfumature, lingue e culture diverse.»

 

Sei una figlia della savana che ha affrontato diverse battaglie e questo fa di te una guerriera tra i maasai. Qual è il ruolo della donna nella cultura maasai e quale strada state tracciando tu e Ntoyiai per vostra figlia Nare?

«Nella cultura maasai uomini e donne hanno ruoli ben diversi, ci sono pochi punti di contatto tra sfera femminile e maschile, ma la donna regge e sorregge tutta la vita familiare: è colei che si occupa della casa e della famiglia, è colei che va a prendere la legna nella foresta e che trasporta taniche d’acqua molto pesanti.

Le donne maasai sono molto forti e quando parlo di forza intendo un qualcosa che nasconde molta fragilità: sono donne a cui molto spesso è stato vietato di parlare, lamentarsi, una voce che nell’ultimo decennio hanno acquisito. 

Oggi sono molto più in grado di autodeterminarsi, hanno sviluppato una sorta di empowerment nei confronti delle loro figlie o nipoti, ma c’è ancora molta strada da fare per raggiungere la parità dei sessi.

Nare è figlia di più culture e spero che riesca ad intrecciare dentro di sé tutto ciò che c’è di bello nella cultura italiana e nella cultura maasai. Io e Ntoyiai non le abbiamo mai imposto di appartenere ad una cultura o ad un’altra e non abbiamo intenzione di farlo in futuro.

Le stiamo insegnando la lingua italiana, la lingua maa e lo swahili e a scuola imparerà l’inglese. Vogliamo darle gli strumenti linguistici per poter decidere un domani di mettere radici dove si sentirà a casa.»

 

In lingua maa “Enkai” significa “dio” e “Enkaji” “casa”. Al di là della fede personale, pensi sia un caso che queste due parole siano quasi identiche?

tramonto - la vita nella savana di Gaia Dominici

 

«Premetto che non sono praticante e non sono neanche sicura di essere credente, ma quando sono arrivata in Kenya ho scoperto un lato spirituale di me che fino ad allora non era mai venuto fuori probabilmente perché non si è mai sentito libero di manifestarsi. 

Vivere nella savana ti permette di creare un contatto con una parte primordiale del tuo io che nelle grandi città viene inevitabilmente soffocato.

Il Kenya ha aperto un canale tra me e qualcosa che è sopra di me. Dio è casa? Non saprei, ma quando sono arrivata qui ho sentito di essere a casa perché vedi che c’è un disegno oltre te ed è meraviglioso.

I colori saturi della natura, l’odore della terra bagnata, gli uccelli che si librano in volo ti portano a chiederti chi sia l’artefice di questa meraviglia.»

 

Nelle tue storie Instagram parli spesso di turismo sostenibile. Quale messaggio vorresti lanciare a questo proposito? 

«Penso che il turismo dell’Africa il più delle volte sia mosso da una base di razzismo di cui non siamo consapevoli. 

Spesso si arriva in questi Paesi senza aver fatto prima un percorso di decostruzione del pensiero razzista, un percorso di consapevolezza del proprio privilegio bianco. 

Si arriva in Kenya con la cosiddetta “Sindrome del Salvatore Bianco” cercando a tutti i costi la povertà più assoluta per confermare i propri pregiudizi.

“L’Africa ha bisogno di me”, è questa la convinzione con cui si mette piede in un Paese di cui si sa poco e niente. 

Il mio consiglio è di mettersi all’ascolto, seguire attivisti e divulgatori africani e afro discendenti, informarsi perché ci si può avvicinare a concetti come il razzismo, la supremazia bianca, la fragilità bianca, la sindrome del salvatore bianco anche tramite Instagram.»

 

Sulla base della tua esperienza personale, quali sono i 5 consigli che daresti a chi si trova nella tua stessa situazione?
  1. Non pensare mai che la vita sia immutabile. Quando vivi il più grande dei dolori, non pensare mai che sia eterno;
  2. Segui sempre il tuo cuore. Potrà essere rischioso, ma le grandi felicità richiedono grande coraggio;
  3. Non permettere mai a nessuno di dirti che quello che stai provando non merita attenzione. Siamo tutti viaggiatori, tutti stiamo soffrendo, tutti abbiamo un piano che pensavamo andasse bene e non è andato, un genitore che non ci ha amato come avremmo voluto. Ognuno di noi ha il suo dolore e quel bagaglio è prezioso: non permettere mai a nessuno di metterci bocca;
  4. Divertiti. Ho sempre vissuto con pesantezza perché pensavo che questo modo di fare mi garantisse profondità. Il mio consiglio è di trovare la poesia dove non c’è, il bello in ogni situazione.
  5. Apriti al mondo senza paura, pregiudizi, luoghi comuni, insicurezze perché il mondo è enorme e non sai dove ti sentirai a casa. Perditi nel mondo, prendi il mondo come maestro e, se sentirai di tornare a casa dopo un lungo viaggio, fallo perché sarà la scelta giusta.

 

Grazie per la tua testimonianza, Gaia. Sono certa che la tua storia sarà di ispirazione e di supporto per molte persone.

«Grazie a te, Graziana, e a WomenX Impact per avermi dato l’opportunità di raccontarmi. È stato un vero piacere!»

 

Graziana Gesualdo


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