La rubrica Diversity & Inclusion curata da Monica Deledda invita ad una comunicazione sempre più inclusiva. Nella rubrica si susseguiranno uomini e donne che ci racconteranno la loro visione sul tema portandoci all’interno della loro vita o del loro brand e permettendoci di conoscere a fondo il tema.
In questa occasione abbiamo avuto il piacere di intervistare Francesco Cannadoro, padre di Tommi, che tramite i suoi post su Instagram racconta la realtà della sua splendida famiglia e ciò che è la disabilità. Lo affronta senza risparmiarsi, senza peli sulla lingua potremmo dire, mostrando alla sua community di oltre 150 mila persone che nella disabilità di normale c’è ben poco ma la sua famiglia è identica a tutte le altre.  Autore del libro ” Io e il drago”, sul web lo definiscono il regalo di una voce al piccolo Tommi, tutto poi per colpa di un drago che ostinato lo ha preso di mira.
Cosa significa per te “diversità”?
Diversità è ricchezza, senza dubbio. Ma una tipo di ricchezza che si può acquisire solo con la conoscenza della diversità stessa. Se non c’è conoscenza, la diversità è povertà. Perché le persone, senza conoscenza reciproca, sono divise, e quindi più povere. Per questo bisogna informarsi, ed essere aperti ad informare. L’inclusione è una matita a due punte. 
 
Raccontaci un episodio della tua vita che ti ha messo duramente alla prova
La mia vita mi mette costantemente a dura prova. Sono cresciuto senza genitori, nelle case famiglia, ho vissuto per strada, e adesso sono un caregiver. Sicuramente le prove più dure le sto affrontando da genitore/caregiver, perché la mia sofferenza l’ho sempre gestita abbastanza bene, ma per sopportare quella di chi si ama davvero, serve qualcosa in più della semplice “resilienza”, che piace molto citare a chi deve scrivere di storie simili. È uno step successivo alla dedizione. 
L’amore ha molte forme. Una di queste, probabilmente, è questa cosa che non so spiegare. 
 
In che modo sarebbe possibile, secondo te, rendere la nostra società più inclusiva? 
Mi ricollego alla prima risposta: conoscenza della diversità. Non c’è altro modo. Non basta la buona volontà, serve applicarsi nella conoscenza. Ma spesso la retorica viene preferita, perché pensare a bimbi speciali e a genitori guerrieri, deresponsabilizza. “Io non ce la farei”. Nemmeno io. Aiutami!
 
Quale messaggio vorresti comunicare attraverso la tua storia?
Il mio scopo è quello di mostrare come stanno veramente le cose, abbattendo i muri fatti di retorica e pietismo, proponendo una narrazione della disabilità che miri a normalizzare l’argomento, senza però arrivare a banalizzarlo come purtroppo ho visto fare ad alcuni. Non siamo necessariamente eroi e nemmeno disperati. Possiamo esserlo, ma anche no. Come chiunque. Com’è NORMALE che sia.  
 
Il digitale nella tua/vostra vita che peso ha avuto o sta avendo?
Il digitale nella nostra vita ha un peso enorme. Il mio impegno sul web ci ha istruito rispetto alla situazione che ci siamo trovati ad affrontare; ho iniziato a raccontarmi per questo. La mia era una richiesta d’aiuto. Con il tempo poi è diventata anche un’opportunità di lavoro – che ho colto al volo – e questo mi dà l’agio di godermi mio figlio H24 e stare con lui finché lui starà con noi. Data la sua condizione degenerativa non siamo sicuri di nulla, se non del fatto che ogni minuto è prezioso. In questo modo ne spreco molti di meno di quando stavo dieci ore al giorno fuori casa. 
Cosa diresti a chi si trova nella tua stessa situazione?

Quel che dico sempre: La disabilità fa schifo, ma la tua vita, nonostante la disabilità, fa schifo solo nella misura in cui tu glielo consenti. 

Gli agenti esterni hanno indubbiamente un’incidenza su di noi e sulla nostra vita, ma arrivano fino ad un certo punto. Più in là, ce li facciamo arrivare noi. E il mio consiglio è di limitarci a subire la vita nella misura in cui lei ci si presenta, di non metterci anche del nostro. Non è semplice, ma si può fare.