In Donne Libere in carriHERe, Virginia Montaruli racconta il mondo del lavoro attraverso gli occhi delle donne, esplorando opportunità e sfide per costruire carriere senza confini.
Un viaggio verso equità, crescita e libertà professionale.
Perché il futuro del lavoro non è solo flessibile, è anche libero.
Il punto interrogativo non è lì per caso. Per milioni di persone, il lavoro da remoto è diventato sinonimo di autonomia, flessibilità, possibilità. Ma è davvero libertà?
In questo articolo proviamo a rispondere, andando oltre gli slogan. Perché lavorare ovunque non significa solo scegliere dove, quando ma anche come e perché.
Il full remote ha cambiato vite, carriere, territori. Ha permesso a molti di restare, invece che partire. Ha aperto strade nuove per chi vuole conciliare lavoro e famiglia. Ma ha anche portato nuove sfide: isolamento, iper-connessione, disuguaglianze digitali.
È una rivoluzione che vuole essere capita, oltre che celebrata.
Parlare di libertà, oggi, significa capire cosa stiamo guadagnando – e cosa stiamo rischiando di perdere.
Lavorare da Ovunque: Come il Full Remote Sta Ridefinendo Vita, Carriera e Territorio
Negli ultimi anni, il full remote ha rivoluzionato il mercato del lavoro, aprendo nuove strade professionali e ridefinendo il concetto stesso di libertà per milioni di lavoratori e lavoratrici. Un cambiamento accelerato dalla pandemia di Covid-19, che ha costretto aziende e dipendenti a rivedere radicalmente le modalità operative, portando a una diffusione senza precedenti dello “smart working”.
Da emergenza a strategia
Prima di ogni considerazione, qualche numero ci aiuta a definire meglio il contesto.
Con l’arrivo della pandemia, il lavoro da remoto è passato da soluzione temporanea a scelta strutturale obbligata per molte aziende in quel periodo.
Secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano:
- Durante il lockdown, la produttività dei lavoratori è aumentata in media del 15%, dato invariato ad oggi;
- questo incremento ha generato fino a 13,7 miliardi di euro in valore economico (PIL).
A quanto pare, nonostante l’attuale ostruzionismo di molte aziende italiane, anche la flessibilità e l’autonomia di chi lavora può incoraggiare la crescita.
Il “reset” personale e professionale
Dopo i numeri, poniamo l’attenzione sulle persone.
La pandemia ha rappresentato anche un momento di pausa forzata, utile per ripensare priorità e obiettivi personali. I dati lo confermano:
- secondo il rapporto Excelsior Unioncamere–Anpal, nel 2021 oltre 500.000 persone in Italia hanno avviato una nuova attività imprenditoriale;
- i dati ISTAT segnalano un forte aumento delle iscrizioni a corsi di formazione online e a percorsi di riqualificazione professionale;
- il 21% dei lavoratori italiani ha cambiato lavoro nei sei mesi successivi all’inizio della pandemia, cercando maggiore coerenza tra lavoro, valori e qualità della vita.
Questa spinta al cambiamento ha anche ridefinito il significato stesso di libertà nel lavoro.
Libertà: una nuova definizione
Dunque, fin qui abbiamo capito che:
- Questi numeri raccontano un cambio di paradigma: ci dicono che il full remote non è solo una questione di “dove”, “quando” si lavora, ma anche di “come” e “perché” si lavora. La possibilità di gestire il proprio tempo, dedicarsi alla formazione, avviare progetti personali o cambiare carriera rappresenta una nuova forma di libertà, che mette al centro la persona e le sue aspirazioni.
Libertà di restare: il riequilibrio economico e sociale
Da dove nasce la necessità di un riequilibrio sociale?
Per troppo tempo costruirsi un futuro ha significato andarsene.
Partire, trasferirsi altrove (es: l’emigrazione meridionale verso il settentrione), inseguire opportunità che sembravano esistere solo nei grandi centri.
Il lavoro full remote ha iniziato a riscrivere questo copione. Oggi, lavorare ovunque è possibile – davvero. Emerge un potenziale trasformativo enorme: significa poter restare dove si è nati (o dove si vuole), investire nel proprio territorio, contribuire a una crescita distribuita o forse più equa.
Restare (o scegliere un determinato luogo) non è più un segno di rinuncia, ma una scelta consapevole. Una scelta che può invertire la “fuga di cervelli” e aprire spazi di valore anche lontano dai soliti e ben percepiti poli economici.
Parliamoci chiaro: vivere in una grande città, per molti, non è più sostenibile.
I numeri parlano da soli. A Milano (che per anni è stata la città presa da esempio e parametro da ogni analista o sedicente tale), secondo Immobiliare.it, i canoni di locazione sono aumentati del 30% in cinque anni, e non serve essere analiste per accorgersi che Milano è un benchmark diventato irrealistico. Per chi inizia una carriera o sogna di mettere su famiglia, accedere a una casa dignitosa è diventato un enorme ostacolo.
PS: gli stipendi non sono aumentati.
Poter vivere dove il costo della vita è più accessibile, senza sacrificare carriera o ambizione (o voglia di vivere), vuol dire poter guadagnare come a Milano, ma vivere in un piccolo centro, magari vicino alla propria famiglia, con un ritmo più umano e un equilibrio più sostenibile.
Non è solo un cambiamento logistico. È una rivoluzione silenziosa che tocca la qualità della vita, la salute mentale, il senso di appartenenza.
Dopotutto, chi vorrebbe pagare affitti da New York City e guadagnare stipendi da Catanzaro?
Un bivio che non dovrebbe più esistere
Pillola blu o pillola rossa?
Quante volte, negli ultimi vent’anni, soprattutto le donne si sono trovate davanti a un bivio troppo stretto: carriera o famiglia? Due strade che, per molto tempo, sembravano escludersi a vicenda.
Tutte quelle donne che hanno scelto di investire nel proprio percorso professionale, per poi decidere di diventare madri, ci sono riuscite? Certo. Con forza, determinazione, e molti sacrifici.
Ma a quale prezzo?
In tante sono state costrette a delegare la crescita dei propri figli ad altri: tate, babysitter, strutture esterne. Non per mancanza d’amore, ma perché il modello organizzativo del lavoro non lasciava spazio a un’altra scelta. In quella assenza quotidiana, spesso si sono nascoste fatiche silenziose, piccoli sensi di colpa, momenti persi che non tornano.
Oggi, finalmente, quel bivio inizia a perdere senso.
Il lavoro da remoto, se supportato da una cultura del lavoro realmente flessibile e inclusiva, può diventare un punto di svolta. Può essere ciò che consente alle donne di non dover più scegliere tra chi sono e chi vogliono diventare.
In un’Italia dove la disoccupazione femminile resta ancora troppo alta e dove l’indipendenza economica è una condizione imprescindibile per l’autodeterminazione, il full remote è uno strumento per ridurre i divari, restituire tempo e possibilità, ma soprattutto per costruire un’economia più equa, fondata sul talento e non sulla rinuncia.
Il lato nascosto del full remote: sfide, rischi e come affrontarli davvero
Tutto rosa e fiori?
Come ogni rivoluzione, anche questa ha luci e ombre; e solo riconoscendo le sue fragilità possiamo renderla sostenibile, equa, duratura.
C’è stato un momento in cui il lavoro da remoto sembrava la risposta a tutto. Niente traffico, niente ufficio, più tempo per sé. Ma poi, piano piano, molti hanno iniziato a sentire che mancava qualcosa.
È cominciato con piccoli segnali:
- il caffè bevuto in silenzio in cucina, invece che davanti alla macchinetta con i colleghi;
- le call su Teams/Zoom che finivano puntuali, ma fredde;
- le giornate che scorrevano senza una battuta, senza uno scambio, senza quella leggerezza che solo la presenza fisica sa creare; etc..
Per qualcuno è diventata solitudine. Un silenzio pesante, specie per chi è a inizio carriera e avrebbe tanto da imparare semplicemente osservando, ascoltando, facendo domande al volo. Ma da remoto, quelle occasioni vanno organizzate – e non sempre succede.
Poi c’è chi ha scoperto l’altra faccia del full remote: l’incapacità di staccare.
La scrivania in salotto, il portatile sempre a portata di mano, il “rispondo al volo” che diventa l’abitudine serale. All’inizio sembra efficienza. Poi ti accorgi che lavori sempre, ma non riposi mai davvero.
Quella che spacciamo per iper-disponibilità è una trappola insidiosa. Non scritta, ma reale. L’idea che se non rispondi subito, potresti sembrare meno coinvolta, meno reattiva, meno “sul pezzo”. Ed è così che anche il sabato mattina si trasforma, silenziosamente, in tempo di lavoro.
A tutto questo si aggiungono i problemi concreti. Una connessione instabile, un software che non funziona, una postazione improvvisata in un angolo del tavolo di cucina. Per chi vive lontano dalle grandi città o in case non pensate per il lavoro, bastano piccoli intoppi per trasformare una giornata in una corsa a ostacoli.
Parliamo dei manager? Anche loro stanno imparando. Perché gestire da remoto non è solo fissare riunioni su riunioni. È saper cogliere i silenzi, capire chi si sta isolando, chi ha bisogno di una parola in più. Il feedback non arriva più per osmosi (non che in presenza il feedback fosse scontato, anzi, tutt’altro. Va cercato, strutturato, dedicato.
Eppure, le soluzioni esistono e quando vengono adottate con cura, fanno la differenza.
C’è chi ha stabilito orari fissi, pause vere, un tempo “off” da rispettare come una riunione importante. C’è chi ha creato un piccolo angolo in casa tutto per sé, chi ha capito che le call sono necessarie, ma anche i momenti informali lo sono. Le aziende più attente organizzano incontri, sessioni di mentoring, percorsi di crescita. Alcune offrono persino sportelli di supporto psicologico, perché sanno che lavorare (specie da sole) può stancare in modi finora sottovalutati o sconosciuti.
Ma più di tutto, il full remote funziona quando si fonda sulla fiducia.
Quando non conta quante ore si sta online, ma che risultati si raggiungono. Quando anche a distanza, si sentono parte di qualcosa.
Alla fine, il lavoro da remoto non è una questione di tecnologia.
È una cultura.
È imparare a collaborare anche senza condividere uno spazio.
È far sentire le persone viste, anche se non si incrociano mai nel corridoio.
È trovare un nuovo equilibrio – umano, prima ancora che digitale.
Questo equilibrio non accade per caso. Va scelto, costruito, curato. Ogni giorno.