Vi diamo il benvenuto nella rubrica Warriors, lo spazio del blog ideato e curato da Graziana Gesualdo, dedicato alle donne guerriere, a chi affronta le proprie battaglie con coraggio e determinazione, oggi a tema arte, attivismo e multipotenzialità.

Oggi sono felice di intervistare Antonella Marino, attrice, pittrice e scrittrice. Un’artista a tutto tondo che sul suo profilo Instagram @antonellamarinoactress si occupa di sensibilizzazione su tematiche come i disturbi del comportamento alimentare, il femminismo, il veganismo, la crescita personale e la creatività, raccontando il proprio vissuto, accogliendo quello della sua community e cercando di creare una rete attiva ed empatica con la quale crescere attraverso la condivisione di esperienze.

Antonella Marino

Ciao Antonella, grazie per essere qui! Raccontaci un po’ di te.

«Ciao Graziana, grazie mille per il tuo invito! È difficilissimo rispondere a questa domanda. 

Sono attrice, pittrice e scrittrice, amo comunicare con le persone e sui social cerco di fare un attivismo volto alla crescita dell’individuo per far sì che ogni persona che mi segue, attraverso il dialogo e la condivisione di esperienze, possa esprimere appieno il proprio potenziale. Sono un’attrice attivista, ecco.»

 

Quali sono le sfide più importanti che hanno caratterizzato la tua vita?

«Sono nata in una famiglia molto complessa e a tratti disfunzionale che mi ha regalato gioie, ma anche tanti schemi di pensiero che mi hanno fatto sentire ingabbiata. Nonostante ne sia stata sempre consapevole, questa certezza mi è arrivata come uno schiaffo facendo psicoterapia. 

Magari suona estremo, ma in 30 anni ho l’impressione di aver vissuto le esperienze che le persone normali (passami il termine) vivono in 60: ho perso due fratelli, ho visto spegnersi mia madre dopo una lunga malattia e, in ultimo, mio padre questo febbraio.

La mia grande sfida è ricordarmi ogni giorno che sono rimasta in piedi dopo tanto dolore accogliendo il senso profondo di tutto ciò che mi capitava. Andando un po’ più in superficie, una grande sfida è darmi la possibilità di prendermi il mio spazio a modo mio ed esprimermi coerentemente con ciò che penso.»

 

Il 1 luglio è uscito il tuo primo romanzo “Lucia dalle Onde” che racconta la storia di Lucia, una trentenne siciliana da sempre in conflitto con le sue origini. Come nasce la scelta di questo titolo e chi è Lucia? Quali sono i punti di contatto e di divergenza con Antonella?

«Il primissimo titolo del libro era “Lucia dalla Lava” perché, essendo siciliana, per me la Sicilia è una terra di fuoco, un magma emotivo, un qualcosa che ti scotta e ti avviluppa allo stesso tempo e fa fatica a lasciarti andare. “Lucia dalla Lava” mi dava l’idea di una luce leggera che si stacca a fatica da questo magma. Tuttavia c’era qualcosa nel titolo che non mi convinceva e, grazie al mio compagno, ho riflettuto su quanto il mare e le onde fossero una presenza costante in tutto il libro. “C’è molta più acqua che fuoco in questo romanzo. Perché non Lucia dalle Onde?” A quel punto ho pensato: “Cavoli, è vero!”

In più, da diverso tempo ho iniziato a dipingere onde, di cognome faccio Marino e mio padre tempo fa mi ha regalato un ciondolo con un’incisione a forma di onde proprio perché il nostro motto è sempre stato “Forza Marino!”. Tutto si è intersecato alla perfezione e non ho avuto più dubbi, il titolo del romanzo sarebbe stato “Lucia dalle Onde”. 

Lucia sono io e non sono io nel senso che tutti i personaggi del romanzo per me sono degli archetipi che mi abitano, in qualche modo. Lei rispetto a me è forse un po’ più cupa, a tratti più irriverente. È stato come fare un viaggio insieme: ho sentito di accompagnarla durante tutta la stesura del libro. Lei accompagnava me e io accompagnavo lei

 

Si può dire che il teatro sia stato il tuo primo amore. Quando hai capito che avrebbe fatto parte del tuo futuro? Pensi possa essere una buona idea inserire questa disciplina nei programmi scolastici di ogni ordine e grado per aiutare bambini e ragazzi a vincere la timidezza, sviluppare empatia e gestire le emozioni?

Bambini a teatro

«Il teatro è stata la prima cosa che mi ha fatto pensare: “Questo è il mio posto e questa è la mia strada!”. La prima volta che sono salita sul palco a 15 anni mi sono sentita a casa, ed essendo la prima volta che provavo questa sensazione, ho pensato: “Io mi dedicherò a questo!” Era l’occasione per me di essere vista e ascoltata perché durante la mia infanzia e adolescenza tutto questo mi è mancato. Il palco era lo spazio perfetto in cui potevo dire: “Fermi, adesso mi guardate davvero e ascoltate quello che ho da dire!”

Credo molto nel valore sociale del teatro. Mi sono diplomata presso l’Académie Internationale Des Arts du Spectacle, in Francia, un Paese in cui il senso del teatro popolare e sociale è più forte rispetto all’Italia. Ho studiato prevalentemente Commedia dell’Arte, portavamo i nostri palcoscenici nelle piazze, li montavamo e li smontavamo come veri e propri artigiani. Questa formazione mi ha restituito il valore sociale del teatro, così come, del resto, accadeva con il teatro greco, che era uno strumento al servizio del cittadino, della comunità: le persone hanno bisogno di sentirsi rappresentate sul palco e hanno bisogno che l’attore dia loro delle chiavi di lettura che le accompagnino a riflettere. Il lavoro artistico sta proprio nel congiungere questi due aspetti: l’esigenza dell’attore di esprimere se stesso e la comprensione dei bisogni della collettività, partendo dal presupposto che avere qualcuno che ti ascolta è sia un privilegio che una responsabilità. 

Insegnare teatro nelle scuole sarebbe molto importante perché il teatro ti insegna la fiducia nei confronti dell’altro, ti spinge all’introspezione, a maneggiare quotidianamente le emozioni in un contesto (si spera) sicuro. L’arte drammatica per me è un po’ come la psicoterapia: la consiglierei a chiunque!»

 

Nel corso della tua vita hai avuto modo di metterti in gioco in diverse attività artistiche: il disegno, il canto, le discipline plastiche, la scenotecnica, la regia, la danza, la poesia e la scrittura. In che modo ognuna di queste discipline ha contribuito a renderti la persona e la professionista che sei oggi?

«Quando ero piccola il mio sogno era quello di diventare un’artista completa, una grandissima ambizione perché obiettivamente non ti basta una vita per perfezionarti in una sola disciplina artistica, figuriamoci in tutte. Nonostante le mille difficoltà che ho incontrato, a partire dai vari “Sì, ma tu cosa fai? Di cosa ti occupi di preciso?”, devo dire che ognuna di queste discipline è stata fondamentale perché mi ha permesso di sviluppare un’elasticità emotiva e di pensiero senza la quale oggi non sarei qui a fare quello che faccio.»

 

Ti definisci multipotenziale. Cos’è la multipotenzialità e quali sono gli aspetti positivi e negativi legati a questa caratteristica che per alcune persone è un dono e per altre un limite?

«I multipotenziali sono persone con una naturale propensione a spaziare e con una grande elasticità di pensiero, che hanno bisogno di trovare collegamenti tra varie discipline e che fanno fatica a riconoscere una vera e propria vocazione e a focalizzarsi su un unico percorso lavorativo.

Il desiderio di fare “troppe” cose e la mancanza di strumenti per capire come farle è spesso motivo di frustrazione e questo perché viviamo in una società che punta alla linearità, a una visione schematica dell’individuo. Ho studiato scenotecnica, recitazione, musica, disegno e danza e fatto i lavori più disparati: la commessa, la cameriera, di tutto! Riuscivo a far bene qualsiasi cosa, ovunque mi mettevi, perché mi veniva facile proporre soluzioni. I multipotenziali sono solitamente persone estremamente adattabili perché, oltre ad avere una naturale curiosità, sono abituati a iniziare daccapo diversi percorsi durante la loro vita.

Non si tratta di essere più bravi, si tratta di funzionare diversamente. In un’azienda, ad esempio, entrambe le figure sono fondamentali: quella dello specialista addentrato nella materia e quello del multipotenziale che ha una visione d’insieme.»

 

Tra le tante passioni che hai ci sono la cucina e la pittura. Se dovessi trovare uno o più punti di contatto tra queste due forme di arte apparentemente inconciliabili, quali sarebbero?

«Partirei dallo stesso approccio: mescolare ingredienti e colori che apparentemente non hanno nulla a che fare tra loro. Il punto di contatto è far star bene le persone, creare un qualcosa che possa suscitare sensazioni di benessere. La cucina e la pittura hanno entrambe a che fare con il colore e ti permettono di entrare a contatto con la materia.

Quando dipingo mi sporco dalla testa ai piedi e il colore mi resta addosso per giorni e giorni, non saprei dipingere in un altro modo, perdo la cognizione dello spazio e del tempo e quando cucino per gli altri succede la stessa cosa

Credo che entrambe queste arti aprano uno spazio tra le persone. Per quanto riguarda la pittura, ho la sensazione che i miei quadri aprano un canale personale intimo tra me e l’altro e, quando porto a termine un lavoro, ho l’impressione di conoscere quella persona pur non conoscendola davvero. Si tratta di una forma di comunicazione diversa dal solito che avviene in uno spazio solo nostro. Allo stesso modo la cucina apre un momento di condivisione e quel piatto diventa un veicolo sensoriale di sapori e di odori.»

Sui social affronti temi molto delicati che ti hanno vista combattere in prima persona e i DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare) sono tra questi. Sulla base della tua esperienza personale, quando ti sei accorta che qualcosa non andava e come hai affrontato questa sfida?

«Indubbiamente quando il 90% dei miei pensieri era incentrato sul cibo e quando la mia autostima dipendeva esclusivamente dalla mia forma fisica. In maniera più concreta, quando ho iniziato a vomitare. Ho sempre avuto una gran voglia di stare bene e un forte istinto di sopravvivenza, per cui sono sempre stata in grado di chiedere aiuto al momento opportuno.  Sapevo che da sola non potevo farcela

I DCA colpiscono soprattutto le donne perché molto spesso conducono una vita a togliere, un’esistenza in cui devono occupare meno spazio, mangiare “il giusto”, non esagerare, solo perché sono donne e non sta bene che una donna mangi una porzione più grande rispetto a quella di un uomo, non è elegante. Sembrano cavolate, ma non lo sono. Dopotutto la nostra fisicità è stata per troppo tempo l’unica moneta di scambio, la garanzia di avere un posto in società e, nonostante siano trascorsi secoli, questa iper attenzione nei confronti della nostra fisicità si fa sentire.

Naturalmente i DCA nascono a causa di problematiche emotive molto più profonde, ma è innegabile che fattori sociali e culturali influiscano enormemente, motivo per il quale quello che cerco di fare sui social è dare una narrazione diversa ricordando che la nostra autostima non può dipendere esclusivamente dalla nostra forma fisica (che, tra l’altro, è soggetta a cambiamenti continui che non possiamo in alcun modo controllare) e che farsi aiutare è fondamentale.»

 

La depressione è uno dei tanti tabù della nostra società. Quanto è stato difficile esporti in tal senso sui social e cosa si potrebbe fare, secondo te, per spingere più persone a parlarne senza vergogna e timore?

Community

«Considero molto nociva la retorica dell’essere vincenti a tutti i costi perché la depressione, soprattutto nel periodo storico che stiamo vivendo, è una condizione più che lecita. Viviamo esistenze cosparse di micro traumi e traumi più grandi che la società non ci dà il tempo di rielaborare.

Guarda semplicemente un lutto… Quanto si parla di morte e dell’impatto che questa ha sulla vita delle persone? La morte di una persona cara è un trauma che ti porti dentro e il fatto che la vita debba andare avanti subito nello stesso modo fa sì che quel trauma si ripercuota su di te in un lasso di tempo più lungo, più avanti, e tu non sai neanche perché. 

Poi ci sono i traumi collettivi: il COVID, la guerra, il riscaldamento globale, tutta una serie di situazioni tremende che mi portano a pensare come si possa non essere depressi. Essere e mostrarsi costantemente vincenti in un contesto del genere per me significa non voler guardare in faccia la realtà.

Oggi siamo sovraccarichi nell’intimo e nel collettivo e l’unico grande potere che abbiamo è parlare, confidarci e fare squadra. Questo è l’obiettivo della mia comunicazione sui social: condividere il mio vissuto e far sentire meno sole le persone che mi seguono.»

 

Quali sono le “armi” che ti hanno permesso di arrivare dove sei oggi?

«Considera che a 13 anni, in un momento in cui stavo vivendo situazioni assurde dal punto di vista familiare, mi sono detta chiaramente: “Qui nessuno è in grado di prendersi cura di te. Puoi farlo solo tu!”. Poi ho immaginato di parlare con la me del futuro e le ho detto: “Confido in te. Tirami fuori di qui! In cambio ce la metterò tutta per resistere!”. Questo per dirti che l’immaginazione, la fantasia, l’arte, il dialogo con se stessi in qualche modo possono salvarci la vita ed è quello è successo a me. Un’altra “arma” senza la quale oggi non sarei qui è la consapevolezza di sapere da dove vengo, una specie di filo sempre presente nella mia vita che non mi ha fatto mai sentire sola o abbandonata.»

 

Se dovessi elencare 5 consigli per chi si trova nella tua stessa situazione, quali sarebbero?
  1. «Dedica la tua vita alla ricerca di ciò che sei e poni questa ricerca sopra ogni cosa cercando di essere utile a te e a chi ti è accanto;
  2. Non avere paura di essere al mondo con il tuo personalissimo modo di essere, con le tue paure e fragilità;
  3. Non dimenticare che le stesse cose che stai vivendo tu, le stanno vivendo tantissime altre persone e fai sì che questo non ti porti a sminuirle, ma a cercare persone simili a te. Crea la tua rete.
  4. Abbi fiducia in ciò che non ti è chiaro adesso, ti sarà chiaro più in là, e non biasimarti per ciò che non riesci a fare, potrebbero esserci periodi in cui anche alzarsi dal letto sarà un successo da festeggiare;
  5. Se non hai la forza di condividere il tuo vissuto, circondati di chi ti fa del bene e di chi ti restituisce un racconto sano e genuino. Se mai dovessi sentirtela, invece, condividi la tua storia! Siamo sempre di più e siamo qui, con te!»

 

Grazie per la tua bellissima testimonianza, Antonella. Sono certa che il tuo racconto sarà di ispirazione e di supporto per molte persone.

«Grazie a te, Graziana, per avermi dato l’opportunità di raccontarmi. È stato un vero piacere!»

Graziana Gesualdo


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