Ormai è storia nota: il lockdown causato dalla pandemia Sars-Cov 2 non ha mietuto solo vittime in termini di vite umane, ma anche a livello lavorativo, specie nell’occupazione femminile.

Aziende e scuole chiuse, smartworking, DAD, la produzione nazionale è completamente ferma.

Lo scotto di queste chiusure forzate, lo hanno pagato soprattutto coloro che, una volta riavviato il sistema, si sono ritrovati improvvisamente senza un lavoro, vuoi per il fallimento dell’azienda, vuoi per doversi occupare dei figli ancora impegnati con la didattica a distanza.
Appare comprensibile pensare come il 2020 sia stato un anno nefasto sotto ogni punto di vista.
Sono state davvero poche le storie di successo, quelle che hanno alimentato una speranza nel cuore. Nel 2021 le cose sembravano poter carburare meglio e, in effetti, da un’indagine ISTAT è risultata una lieve ripresa lavorativa.

36.000 lavoratori in più rispetto al 2020, uno 0,2% che ha fatto gridare al miracolo, ma questa è una buona notizia a metà.
Perché? Perché il Bilancio del genere 2021 ha rivelato che in quella piccola percentuale, in quella minuscola scintilla di vita rilevata a fine anno, non vi figurano le donne.

Donne e pandemia: com’è cambiata l’occupazione femminile

Se il 2019 sembrava essere l’anno di svolta per l’occupazione femminile in Italia, superando la soglia del 50% complessivo, il 2020 ha costretto a uno stop forzato, facendo calare la percentuale al 49%, stagnandosi poi in una desertificazione occupazionale che perdura ancora oggi.

I dati, a un occhio inesperto, potrebbero sembrare delle inerzie, ma in realtà sono allarmanti.

La percentuale relativa alle donne lavoratrici, nel 2013, era del 46,5%, numeri che poi sono andati
lentamente a crescere per i successivi 5 anni.

E poi cosa è successo? Poi è arrivato il covid e 420.000 donne hanno perso il proprio lavoro. E se l’aver conquistato nel 2019 i quasi 10 milioni di donne impiegate sembrava un traguardo da dover festeggiare, la realtà dei fatti è parecchio lontana dall’essere rosea. Infatti dei 4 milioni rientrati a lavoro dopo il primo lock down, il 70% era costituito da uomini.

È una realtà che fa male, che colpisce chi cerca, in Italia, di ritagliarsi un proprio spazio nel già di per sé difficile mondo del lavoro. E fa ancora più male quando escono le statistiche che confrontano il nostro Paese con il resto dei Paesi europei.

 

Occupazione femminile

 

Lo schiaffo dell’Eurostat: in Italia, per le madri, il lavoro non esiste

Quante volte abbiamo desiderato vivere in un luogo ai livelli del nord Europa? Di ritrovarsi, per una volta, sul podio della Nazione migliore? E gli svedesi questa sensazione devono conoscerla benissimo, visto che la Svezia conta un tasso di occupazione femminile pari all’80%.

E l’Italia?

Secondo i dati Eurostat di agosto 2021, l’Italia è prevedibilmente maglia nera.

Il 35% della popolazione femminile si classifica come NEET, ovvero Neither in Employment or in Education or Training, cioè coloro che né studiano e né lavorano. Difficile poi stabilire il perché di questa condizione. Si tratta di scelte? O di un mercato del lavoro immobile e che non consente sbocchi per tutti?

Per chi è madre, poi, le percentuali sono più impietose: quasi il 50% non ha una professione, registrando così il tasso di occupazione più basso di tutta Europa.

Non dobbiamo dimenticare, poi, le difficoltà giornaliere che quasi ogni donna italiana incontra nel proprio percorso: ci sono ostacoli in entrata durante un colloquio e nel proseguimento della carriera, pregiudizi e molto spesso anche diritti calpestati.

Ma la colpa di chi è? Forse la colpa è della società e di chi scende a compromessi pur di lavorare.

O, più probabilmente, la colpa è di chi vede ancora la donna unicamente come una figura da destinare alla casa e alla maternità; di chi non equipara a livello legislativo maternità e paternità; di chi costringe le donne a firmare atti illeciti come accordi sul non avere mai una gravidanza. Di chi non fa rispettare delle leggi che esistono e che tutelano non solo la donna, ma anche il datore di lavoro.

 

Maria Stella Rossi


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