Nella rubrica Non più Invisibili parliamo di malattie croniche e lavoro. Giovanna Errore, copywriter e redattrice freelance, ci racconta sfide, difficoltà e potenziali soluzioni per chi soffre di queste patologie.
Quando parliamo di lavorare con patologia cronica, ci riferiamo a tutti quei casi che rimangono sommersi nel sistema sanitario e nel mondo del lavoro italiano. Ovvero delle malattie cosiddette “invisibili”. Quelle che non sono riconosciute dal SSN o non rientrano nei LEA (livelli essenziali di assistenza) e che quindi non prevedono alcuna tutela per il lavoratore o la lavoratrice. Da community interessata al lavoro per tutti e per tutte, privo di discriminazioni, ci chiediamo: quali sono le possibili soluzioni e gli adattamenti per consentire a queste persone una soddisfazione lavorativa? Andiamo con ordine.
Quali sono le malattie croniche “invisibili”
Definiamo così le patologie che provocano dolore cronico o altri disturbi sistemici con conseguenze invalidanti sulla persona e sulla sua routine quotidiana. Tra queste rientrano la fibromialgia, la sindrome da stanchezza cronica, la vulvodinia, l’adenomiosi, l’endometriosi (quest’ultima rientra nei LEA solo per le pazienti che si trovano al terzo o al quarto stadio) e tante altre. Non è un caso che molte di queste patologie siano prettamente o prevalentemente femminili, ed è per questo che possiamo considerare la loro incidenza un fattore di discriminazione di genere.
Secondo uno studio di Statista, nel 2019 l’incidenza di patologie muscoloscheletriche in Europa era nettamente superiore nelle donne rispetto agli uomini. Ma non si tratta di un dato puramente statistico: patologie come vulvodinia, endometriosi e adenomiosi sono legate all’apparato riproduttivo femminile e quindi hanno inevitabilmente una maggiore incidenza sulla popolazione di donne. Anche altre malattie croniche come la fibromialgia, la sindrome della vescica dolorosa e la sindrome da stanchezza cronica colpiscono maggiormente le donne.
Lavorare con patologia cronica: un percorso a ostacoli
La prima difficoltà che le lavoratrici incontrano è proprio ottenere la diagnosi di malattia cronica. Questa ha una media di quattro anni e mezzo dall’insorgenza dei sintomi per la fibromialgia, di sette anni per l’endometriosi, di cinque anni per altre malattie croncihe. Questi dati, riportati dall’Osservatorio Malattie Rare, concorrono a creare un clima di sospetto e di paura in chi comincia a provare dei sintomi senza vederne riconosciuta la causa.
La conseguenza più comune è essere tacciate di pigrizia o di vittimismo negli anni che precedono la diagnosi, e a volte anche in quelli che la seguono. La mancanza di riconoscimento da parte del SSN, infatti, fa sì che le pazienti con patologia cronica subiscano spesso l’umiliazione di non essere credute. Il che le mette in cattiva luce con parenti e amici, ma soprattutto con i propri datori di lavoro. I giorni di malattia si allungano, il rendimento sul lavoro si riduce e la salute mentale risente dello stress fisico. Insomma, lavorare con patologia cronica (già diagnosticata o meno) è un’odissea.
Mobbing e altre conseguenze sul lavoro
Se il rendimento della lavoratrice scende e il numero dei giorni di malattia aumenta, senza un reale supporto dello Stato, spesso il datore o la datrice di lavoro cominciano a guardare con sospetto i malanni riferiti. Magari la lavoratrice parla genericamente di “dolore cronico”. Dice di “star male”, viene certificata dal medico di base per “malessere diffuso”.
Tutta questa ambiguità non fa che alimentare il sospetto che, in fondo, la persona non abbia realmente voglia di lavorare. Nei casi peggiori, si passa al mobbing. La persona viene redarguita, poi rimproverata, infine vessata per il calo di performance. Ma anche quando non si arriva a questi estremi, la situazione è complessa. Chi ha bisogno di particolari adeguamenti si troverà spesso a rinunciare a promozioni, viaggi di lavoro, aumenti del carico e quindi dello stipendio.
Di quante donne stiamo parlando?
Secondo un rapporto Istat, nel 2016 circa il 19% delle donne italiane soffriva di una o più patolologie croniche. La pandemia da Covid-19 con le sue conseguenze a lungo termine ha fatto crescere questa percentuale. Parliamo di donne che vanno a lavorare con patologia cronica (o più di una). Oppure, peggio, di donne che devono rinunciare a lavorare per questo motivo. Discriminazioni, vessazioni e mancanza di tutele sono solo alcuni dei fattori che tengono queste donne lontane dal mondo del lavoro.
Per esempio, chi soffre di vescica iperattiva necessita di utilizzare i servizi igienici più spesso delle lavoratrici “sane”. Un’altra necessità spesso invalidante è quella di non rimanere nella stessa posizione a lungo, per chi soffre di fibromialgia o dolore cronico. Così qualsiasi mestiere che preveda lunghe ore in piedi viene di fatto ostacolato. Allo stesso modo, certi dress code sono proibitivi per chi soffre di dolore cronico alla schiena (si pensi, per esempio, ai tacchi alti).
Allora lavorare con patologia cronica è impossibile?
No, per fortuna qualcosa si muove. Insieme alle tante associazioni che lavorano per i diritti delle persone con malattie croniche, anche il mondo del lavoro sta cambiando. La possibilità di lavorare in remoto è un ottimo esempio di flessibilità che viene incontro alle esigenze delle donne lavoratrici. Da casa, infatti, possono fare pausa quando ne hanno bisogno e utilizzare tutti gli ausili necessari al loro benessere. Dall’inizio della pandemia fino al 2023, lo smart working è cresciuto in Italia e nel resto d’Europa. E se alcune aziende stanno facendo dietrofront, le lavoratrici e i lavoratori continuano a cercare flessibilità nel loro lavoro ideale.
La soluzione? Un cambiamento decisivo nel paradigma professionale, che integri una certa flessibilità negli orari, nei luoghi e nei comportamenti richiesti alle dipendenti. Anche se il lavoro come libere professioniste può offrire grandi soddisfazioni, è giusto che si trovino modalità per permettere alle persone di lavorare con patologia cronica rispettando le necessità del proprio corpo, anche quando sono dipendenti di un’azienda.
Paradigmi futuri e possibilità di cambiamento
Da un lato, le aziende e il mondo del lavoro dovrebbero adeguarsi alle crescenti necessità delle persone con patologie croniche. Dall’altro, il Ministero della Salute e il Sistema Sanitario Nazionale dovrebbero fare di questi pazienti una delle loro priorità. Ma anche per le lavoratrici ci sono possibilità da sfruttare.
Lavorare con patologia cronica, rispettando i tempi e le necessità della propria salute, è possibile e auspicabile. Nel prossimo articolo di questa rubrica parleremo delle possibilità offerte dalla partita IVA per la gestione libera dei propri tempi e ritmi e analizzeremo il diritto alla soddisfazione lavorativa e di vita.