Questa rubrica nasce da una domanda che è a suo modo una provocazione, tanto per chi legge quanto per chi scrive: cosa si può dire di nuovo su un tema che ci accompagna da più di duemila anni e su cui tuttora si scrivono innumerevoli libri e articoli, si tengono interviste televisive e addirittura corsi di formazione? Insomma, nel 2023 può ancora avere senso discutere di leadership?
Per curiosità abbiamo fatto un semplice esperimento sul motore di ricerca di Google: la parola “leadership” restituisce 2,3 miliardi di risultati, “leadership oggi” se ne aggiudica 43 milioni, mentre la declinazione “leadership femminile” ne ottiene 2,1 milioni. Tra i suggerimenti più comuni in italiano ci sono i termini leadership inclusiva, femminile e situazionale. Insomma, è un termine conosciuto e declinato in molteplici sfaccettature più o meno altisonanti (avete mai sentito parlare di leadership trasformazionale?)
Questi numeri sono una chiara evidenza di quanto il concetto sia ormai parte integrante della nostra vita, anche se nel tempo ha acquistato sfumature che ne mettono in luce una diversa accezioni rispetto al significato classico, più tradizionale.
Cosa nasconde quindi, questa parola? Come molti dei termini che utilizziamo ormai quotidianamente, il leader non è che la trasposizione anglosassone del “capo” italiano, probabilmente reso più altisonante dalla pronuncia extra continentale. Per i latini, il caput indicava la testa ed era quindi per estensione metaforica un modo di riferirsi alla persona “in testa”, che fosse un esercito o un gruppo di senatori romani.
Allo stesso modo, oltre Manica, il verbo to lead denota l’attività di guida e il leader è colui che in capo a un gruppo ha la capacità di influenzarne i comportamenti e le decisioni.
Una lettura etimologica del presente
A seguito di questa ricostruzione etimologica, un primo commento potrebbe riguardare l’ambito a cui questo concetto solitamente viene associato. Proviamo a rifletterci insieme: quali sono i primi pensieri che ti vengono alla mente pronunciando questa parola? Chiudi gli occhi e prenditi alcuni secondi per lasciare alla mente la libertà di associazione.
Probabilmente avrai pensato a situazioni politiche, come partiti o governi, oppure a contesti sociali, come movimenti di cambiamento, di protesta o iniziative per il riconoscimento dei diritti. Un’ulteriore associazione potrebbe riguardare l’ambito professionale, colleghi carismatici o in posizioni di potere che guidano un gruppo, o meglio, come diremmo in quella situazione, un team.
Queste sono sicuramente le letture più immediate e diffuse nel pensiero comune, influenzate da un concetto di leadership legato al potere e a situazioni in cui vige un disallineamento gerarchico tra chi guida e chi è guidato. Se ci spingessimo un passo più in là, pensando a esempi reali di grandi leader, probabilmente sarebbero in gran parte uomini, con figure femminili di più recente inserimento. Limitandoci agli ultimi 150 anni potremmo citare Gandhi, Nelson Mandela, Martin Luther King, J.F. Kennedy, Papa Giovanni Paolo II e molti altri. Potremmo poi aggiungere Madre Teresa di Calcutta, Michelle Obama, Malala Yousafzai, Greta Thunberg.
Le donne ci sono, o meglio, le donne iniziano a essere riconosciute come parte integrante della storia, seppure di quella più recente. Rifacendoci a fatti contemporanei e locali, la vittoria di Giorgia Meloni alla Presidenza del Consiglio italiano e di Elly Schlein alla Segreteria del Partito Democratico hanno generato una serie ininterrotta di titoli e interviste incentrate non tanto sul loro merito, che è quasi passato in secondo piano, quanto sul loro ruolo di “Prima donna alla guida di…”
Finalmente, qualcosa sta cambiando. Stiamo assistendo a un’evoluzione che si sta espandendo onda dopo onda, accompagnata però ancora da un’eco di stupore e meraviglia, come ci fanno capire quei tanti titoli che al di là del merito sottolineano il fattore di genere, “la prima donna”.
Dal contesto sociale alla realtà individuale: uno zoom sul nostro quotidiano
Great resignation, quiet quitting, big quit: recentemente anche il mondo del lavoro sta iniziando ad affrontare nuovi e inaspettati fenomeni, che stanno facendo emergere degli aspetti finora inesplorati o inespressi della relazione tra persona e lavoro. Il periodo di standby a cui ci ha obbligati la Pandemia, ha avuto infatti tra i suoi effetti quello di far rivalutare il tempo a disposizione e la sua qualità. Siamo stati messi di fronte a una profonda rottura tra quella che è la nostra to do list quotidiana e quella che sarebbe invece la nostra wish list, una contrapposizione tra dovere (lavoro, impegni di ruotine, ecc.) e volere (hobby, passioni, relazioni). Da questo confronto emerge fortemente la necessità di riaffermare il proprio essere e il proprio volere, riappropriandosi di quel tempo troppo spesso sacrificato a beneficio della nostra lista di doveri da spuntare.
Tutto questo sta innescando un cambiamento nel contesto lavorativo, in cui più o meno agilmente si stanno introducendo possibilità di smart o hybrid working, orari flessibili, iniziative di welfare psicologico e molto altro. Stiamo assistendo in prima persona a un’evoluzione, che si rispecchierà inevitabilmente anche a livello culturale. Considerando questo movimento generalizzato, la provocazione iniziale è ancora più calzante e reclama una risposta adeguata: nel 2023, alla luce di questo cambiamento in atto, come reinterpretare la leadership?
Leadership R-evolution
Avendo ormai sdoganato i prestiti dall’inglese, rispondiamo a questa provocazione introducendo il concetto di “Leadership R-evolution” in cui la leadership viene concepita nell’accezione di una rivoluzione che è al contempo un’evoluzione. Pensare al leader come a un eroe solitario, che si erge alla guida dei pari per doti innate o che gli sono state riconosciute è ormai anacronistico: la realtà in cui viviamo è fatta di scambio, di relazioni e co-creazione di valore e richiede una capacità intrinseca di adeguarsi a un cambiamento continuo e dinamico, che caratterizza le organizzazioni e i gruppi sociali in cui ci muoviamo.
In un certo senso, una componente fondamentale è la predisposizione a innovarsi, riuscendo a trovare un equilibrio tra la propria maturazione (vissuta come evoluzione) e l’apertura al nuovo (da cui la rivoluzione). L’assunto di base è che in un tempo nuovo, in cui la curva del progresso ha seguito un’accelerazione esponenziale rispetto al passato, il leader è colui che partendo dal suo bagaglio di esperienze, ha la capacità di impegnarsi concretamente nel presente per costruire un domani che i più non riescono ancora a immaginare.
È un cambio di paradigma forte, che sposta il fulcro da un potere di cui si era investiti dall’esterno e quindi riservato a pochi eletti, per arrivare a rappresentare una predisposizione interiore di ricerca e messa a disposizione, che può essere raggiunta da chiunque la senta propria. Questo nuovo approccio ampia enormemente il campo di adozione, che non è più limitato a contesti politici, professionali o comunque elitari, ma si può adottare come modus vivendi personale, nella quotidianità. È una leadership delle piccole cose.
È tempo di prendere la rincorsa
Il cambiamento non è un singolo passo, ma piuttosto un salto in avanti che richiede la giusta dose di rincorsa, motivazione e conoscenza, sia del punto di partenza che della traiettoria di arrivo. Ognuno di noi, con le proprie energie, si trova in una fase personale del percorso: ecco qualche consiglio per farti compagnia.
Se la leadership richiede un’apertura al cambiamento, siamo pronti a sbilanciarci in avanti?
Serena Marmo, Tech & Digital expert