Benvenuti nel format “Meet the Speaker”, un’occasione per approfondire il percorso professionale degli speaker che saranno presenti al WomenX Impact Summit 2023.

Oggi intervistiamo Stefano Ferri, giornalista e scrittore.

 

 

Ciao Stefano, quali sono state le tappe del tuo percorso professionale che ti hanno portato dove sei oggi?

Le mie tappe, spesso difficili, sono legate a doppio filo al mio modo d’essere, il crossdressing. Se c’è una cosa che non mi perdonerò mai è di essere arrivato a trent’anni senza conoscere nulla di me. Ciò mi ha danneggiato tantissimo, perché non esiste carriera se non a valle di una presa di coscienza matura e completa della propria personalità.

Cominciai vestito da uomo – a questo punto lo devo dire, non è un dettaglio – in diverse redazioni televisive, dove però mi feci odiare perché quello televisivo è un mondo molto femminile, e io le donne le invidiavo tutte. Le invidiavo perché erano libere di vestirsi come io oggi mi vesto ma all’epoca rimuovevo di voler fare. L’invidia è il sentimento negativo per eccellenza, non credete a quanti parlano di invidia positiva, l’invidia non è mai positiva, è solo distruttiva, l’ammirazione è tutt’altra cosa. Morale: non mi rinnovarono il contratto, giustamente direi, così spingendomi a una lunga fase di pausa e di ricerca interiore. Durante questa fase iniziai, con grande prudenza, a effeminare il mio guardaroba, lungi dal capire che era quella la soluzione dei miei problemi. Lo feci con un senso di liberazione, perché comunque sapevo di concedermi qualcosa di cui avevo voglia e bisogno, ma anche con tanta paura, sia della società sia anche di me stesso.

Più passava il tempo, meno comprendevo le vere ragioni di un passaggio che di anno in anno mi conduceva a stravolgere le regole dell’estetica. Avevo iniziato con innocenti infradito a T e pantaloni senza pinces e mi ritrovai con giacche damascate, unghie smaltate, kilt che di kilt avevano solo il nome ma erano gonne a tutti gli effetti. Intanto, corroborato da questa diciamo transizione, avevo ripreso a lavorare, e pure bene. Divenni giornalista nella stampa tecnica turistico-congressuale, nel giro di quattro anni mi affidarono persino la direzione di una testata. Colpo di fortuna enorme ma che in breve tempo mi si ritorse contro, perché gli abiti che indossavo, ormai femminili al cento per cento (c’erano persino i tubini), fornirono il grimaldello all’invidia altrui. Fui messo in cattiva luce presso i miei editori, che percepivano un’aria di ridicolizzazione ai miei danni, dunque anche ai danni della testata, e giocoforza dovetti andarmene.

Dirai: ma non sei ossessionato dall’invidia? No, non lo sono, semplicemente la conosco benissimo per averla praticata (lo ammetto) e subita in dosi titaniche. E metto in guardia chiunque mi stia leggendo, soprattutto i giovani, contro questo nemico subdolo e onnipresente, il vero grande ostacolo all’avanzamento di carriera, da qualunque lato ci si trovi, invidiosi o invidiati.

Rimasto di nuovo solo, mi ritrovai a capitalizzare la grande visibilità che nel mio ambiente m’ero ritagliato durante i quattro anni trascorsi da direttore. Ricevevo offerte di consulenza a frotte, e in questo modo scoprii la mia vera vocazione: il PR. Aprii partita Iva, fondai la mia agenzia e ancor oggi sono qui.

 

Quali sono stati gli ostacoli più grandi che hai affrontato nella tua carriera? E come li hai superati?

Uno l’ho detto: l’invidia. Praticata e patita. Faccio notare come in entrambi i casi mi abbia fatto perdere il lavoro. L’altro è stato l’accettazione sociale.

Quando completai il cambio di guardaroba si era negli anni Duemila, un’epoca molto diversa dall’attuale. La parola inclusione non esisteva, di diritti civili non si parlava (parentesi: proprio il successivo emergere di questi concetti mostra la gran quantità di gente che, per vie diverse, deve aver subìto quanto ho subìto io). Un uomo vestito da donna non era mai legittimato, semmai tollerato, e questo mi prostrava, mi toglieva sicurezza. Mi sentivo sempre sulla graticola, pieno di paure che fomentavano aggressività.

Vale anche per noi umani quello che vale per gli animali: un animale ti aggredisce solo quando ha paura di te, e io in quegli anni avevo paura di tutti. Sto ovviamente parlando di aggressività subliminale, l’aggressività dei gesti, degli sguardi, degli atteggiamenti che fanno trasparire il complesso del fortino assediato. Giunsi a un bivio: o imbracciavo un kalashnikov o andavo in terapia. Scelsi, per fortuna mia e degli altri, la seconda strada – penso sia ora chiaro cosa c’è dietro le stragi che quasi ogni giorno colpiscono cittadini innocenti, soprattutto negli Stati Uniti – e non finirò mai di ringraziare la buona stella che propiziò l’incontro con una psicoterapeuta preparatissima, in grado, nel volgere di pochi anni, di farmi capire me stesso. Su questo percorso ho impostato il mio romanzo autobiografico (“Crossdresser-Stefano e Stefania, le due parti di me”, Mursia 2021) e incoraggio chiunque a fare come me, perché ciascuno di noi è un mistero, altrimenti non esisterebbe il detto secondo cui chi fa l’avvocato di se stesso ha come cliente uno sconosciuto.

 

Quali sono, secondo te, le azioni specifiche che gli uomini possano intraprendere per sostenere attivamente la parità di genere?

Gli uomini devono darsi una mossa e comprendere che siamo nel ventunesimo secolo, non nell’Ottocento. L’emancipazione femminile servirà a ben poco sino a quando non ce ne sarà una anche maschile, e di quest’ultima non si vede traccia se non marginale.

A questo punto la domanda è: emancipazione da cosa?

Si è portati a pensare che la donna si sia emancipata dall’uomo, ma così non è. Una teoria molto interessante, portata avanti dai politologi americani, parla della fine del Settecento come della fase in cui si verificò la Grande Rinuncia Maschile (Great Male Resignation). Sospinti dall’invenzione della macchina a vapore, che potenziò esponenzialmente le botteghe artigiane trasformandole in industrie da migliaia di dipendenti, e incoraggiati dal messaggio dei rivoluzionari giacobini, secondo cui chiunque poteva diventare “re” in termini di ricchezza e potere semplicemente lavorando, gli uomini proposero alle donne uno scambio: a te la bellezza (ciprie, parrucche, velluti colorati, tacchi – erano maschili ed esprimevano nobiltà), a me il potere. Fu dunque alla moda che gli uomini rinunciarono. Ne fanno fede le fotografie del XIX Secolo, in cui tutti i maschi, tutti, nessuno escluso, compaiono vestiti a lutto, sempre. Fu un secolo completamente privo di gusto, di eros e di colore.

Ebbene, la donna moderna, in carriera, presidente, ministra, componente di Cda, professionista, dirigente e quant’altro, si è liberata non dall’uomo ma da questo scambio. Di cui il maschio è invece ancora totalmente succube: un devastante senso omofobico, strisciante e deterministico, si frappone fra lui e l’espressione della sua bellezza.

Attenzione perché la bellezza è nella natura delle cose, e negarla non è funzionale alla prosecuzione della vita, ok?

Metrosexual, dandy, crossdresser ecc segnano l’inizio dell’emancipazione maschile. La storia è ancora lunga, talmente lunga che nessuno di noi, nemmeno i nostri figli, ne vedrà il pieno compimento. Ma il successo mondiale di gruppi come i Maneskin e la vittoria a furor di popolo di Mahmood in gonna a Sanremo mostrano come il sentiero sia tracciato e irreversibile. Per fortuna.

 

Per ascoltare lo speech di Stefano, non perdere l’occasione di partecipare al WomenX Impact Summit 2023.