Nella rubrica Non più Invisibili parliamo di malattie croniche e lavoro. Giovanna Errore, copywriter e redattrice freelance, ci racconta sfide, difficoltà e potenziali soluzioni per chi soffre di queste patologie.

Linguaggio della disabilità: la foto ritrae una donna in carrozzina che sta facendo una videocall di lavoro

Foto di Marcus Aurelius

Già da qualche mese in Italia è arrivata una svolta nell’uso del linguaggio inclusivo. Si tratta di un decreto legislativo, il n. 62 del 2024, in vigore dal 30 giugno 2024. Nonostante sia passato quasi metà anno, però, non tutti conoscono le novità introdotte soprattutto nel linguaggio della disabilità. Per le persone con disabilità, visibile o invisibile, permanente o temporanea, le parole sono importanti. Lo sono, in realtà, per chiunque, perché ci permettono di plasmare la nostra realtà e le nostre categorie mentali. Scopriamo insieme di cosa si tratta e come cambiano con il nuovo decreto legge.

L’importanza del linguaggio della disabilità

Se in generale il linguaggio modella il nostro mondo e il mondo modella il nostro linguaggio, nel contesto delle discriminazioni ciò è ancora più importante. Grazie alle parole definiamo ciò che conosciamo, e non possiamo conoscere pensieri per i quali non abbiamo parole adatte. Entra qui in gioco il linguaggio inclusivo, elemento indispensabile per una società davvero progressista. Per promuovere l’inclusività in un team di lavoro o di studio, infatti, non basta permettere a rappresentanti di categorie marginalizzate di farne parte. Bisogna anche sapere come includerle in modo effettivo, e questo processo passa anche per l’uso delle parole.

Ciò vale sia per le persone con disabilità visibile che per chi ha una malattia cronica “invisibile” e accoglie la necessità di dare un nome e una sostanza alla propria condizione. Un nome che non sia discriminante. La condizione di disabilità modifica i comportamenti e anche la stessa visione di sé della persona che ne fa esperienza, e può essere estremamente complessa da vivere se la rete sociale non la definisce nel modo corretto. Proprio per questo il decreto legge 62/2024 si concentra sul linguaggio della disabilità, la normalizzazione di formule corrette e non discriminanti e l’eliminazione di termini obsoleti e stereotipi.

Il linguaggio della disabilità invisibile

Il linguaggio delle persone che soffrono di dolore cronico è nei fatti intriso di metafore e allegorie che non sono utilizzate per descrivere il dolore come entità in sé, ma piuttosto per verbalizzare come esso sia sentito, come in quel momento se ne stia facendo esperienza.

[cit. Chiara Moretti – Il dolore illegittimo. Un’etnografia della sidrome fibromialgica]

La difficoltà nel verbalizzare una condizione si fa ancora più pressante nelle malattie croniche e invisibili (o invisibilizzate dalle istituzioni) che tendono a ghettizzare in modo diverso, ma comunque molto pesante, le persone che le vivono. Se vivere e lavorare con una patologia cronica presenta le proprie sfide, queste possono essere esacerbate da una visione stereotipata della persona.

Insomma, chi soffre di patologie croniche viene spesso considerato una persona esagerata, allarmista, svogliata e pigra sul lavoro perché risulta difficile collegarla alla “vera” disabilità. E d’altro canto, rischia di vivere discriminazioni e stigma simili a quelli della persona con disabilità visibile, evidente. Per entrambe le categorie il pericolo è di essere identificate con la propria condizione di salute, cancellando di fatto tutte le altre caratteristiche proprie della persona, sul lavoro e non solo.

La foto ritrae un team di lavoro: tre donne e un uomo in carrozzina seduti a un tavolo

Foto di Moe Magners

Cosa cambia con il decreto legislativo n. 62 del 2024

Il decreto elabora diverse nuove strategie per una migliore inclusione delle persona con disabilità e dedica molto spazio alla terminologia. La definizione identity-first viene definitivamente sostituita a livello legislativo da una definizione person-first. Cosa significa? Che il linguaggio della disabilità sposta l’attenzione dalla categoria alla persona. Così non è più corretto dire “autistico“, ma sarà più giusto usare la formula “persona con autismo” oppure “donna con autismo” o “uomo con autismo“. La persona viene rispettata nella sua interezza e la sua condizione si riduce a una sola parte. L’autismo, così come la disabilità fisica, cognitiva o sensoriale, diventa qualcosa che la persona ha, non ciò che la persona è.

Si tratta di una vera rivoluzione, già da tempo promossa da associazioni di pazienti e di persone con determinate condizioni. Non è raro trovare racconti di persone con disabilità di diverso tipo che, al momento della propria diagnosi, hanno dovuto affrontare il percorso di accettazione con l’aiuto di uno psicoterapeuta. Ecco, questo percorso include spesso la necessità di non identificarsi con la propria condizione di salute. Un linguaggio person-first mette nero su bianco questa fondamentale differenza.

Il rispetto delle singole identità e sensibilità

Anche se oggi abbiamo un framework legislativo che ci guida nell’uso del linguaggio della disabilità, non possiamo dimenticare che ogni persona è una storia a sé. E che nella vita delle persone marginalizzate per qualsiasi motivo, la storia e la sensibilità della persona hanno sempre la meglio sulle regole grammaticali e perfino sui decreti legge.

Questo vuol dire che, quando abbiamo a che fare con una persona che si riconosce in una disabilità, una neurodivergenza o una malattia cronica, dobbiamo prima di tutto ascoltare come parla di se stessa. In un percorso simile a quello della comunità LGBTQIA+, alcune persone con disabilità preferiscono riappropriarsi dei termini denigratori che per anni sono stati utilizzati come insulti contro di loro. In parole povere, se una collega si autodefinisce “persona disabile“, sarà corretto rispettare la sua scelta anche se il d.lgs 62/2024 preferisce la dicitura “persona con disabilità“.

Come cambia il linguaggio della disabilità secondo il decreto

Se conosciamo di persona l’individuo a cui ci stiamo rivolgendo, sarà bene utilizzare lo stesso termine che lei o lui usa per definirsi. Se invece parliamo o scriviamo in linea generale, seguiamo le direttive del decreto legislativo 62/2024. Queste prevedono le seguenti modifiche al linguaggio della disabilità, soprattutto quando è usato in contesti lavorativi o scolastici.

  • I termini “handicappato“, “portatore di handicap“, “diversamente abile” vengono del tutto eliminati.
  • Disabile” sarà sostituito da “persona con disabilità, così come “autistico” da “persona con autismo” e “malato cronico” da “persona con malattia cronica“.
  • Invece di “connotazione o situazione di gravità” si preferisce “necessità di sostegno elevato o molto elevato“.

Il glossario della Regione Piemonte Di’ la cosa giusta è un buon punto di partenza per individuare i termini della disabilità che possono essere discriminanti ed evitarli, sostituendoli con espressioni meno stigmatizzanti. Per il resto, un buon equilibrio tra sensibilità personale e correttezza grammaticale eviterà brutte figure. Quando siamo in dubbio, ricordiamo che la persona più adatta a risolvere i nostri dilemmi è quella che abbiamo di fronte. Non temiamo di chiedere come la persona preferisca essere definita, con tatto e sensibilità, per non incappare in un linguaggio denigratorio.

Linguaggio della disabilità - La foto ritrae una donna con sindrome di Down che lavora al pc

Foto di Cliff Booth

E teniamo sempre la mente aperta ai temi dell’inclusione a tutti i livelli.

Giovanna Errore